Chi vuole auto più brutte? Gli automobilisti? No, i costruttori automobilistici. Almeno i migliori, si capisce.
C’è qualcosa che non torna in questo discorso? Sembra di sì; ma seguitemi, che provo a spiegarvi… E’ una teoria che pare bislacca, lo so, ma è vera, e non è semplice da cogliere.
“No, dico, capiamoci, cos’è quella roba là sotto? Chi è il degenerato che l’ha disegnata? un italiano forse?”
Piaceva a tutti, o quasi.
L’auto in questione – carina, azzurrina e dai tratti occidentali – era conosciuta in Europa come Datsun 240Z ma ha avuto vari nomi, tra cui Nissan S30 e Fairlady. L’ho solo scelta come esempio di vettura orientale benedetta da una linea riuscita e universalmente apprezzata, che infatti l’ha resa un successo in ogni parte del globo. Un errore da non ripetere. E’ un errore fare un’auto che piaccia tanto e a tanti? A volte sì.
Gli orientali non amano litigare.
Il tizio qui sopra invece è un giapponese arrabbiato; uno qualsiasi ma che nel 1970 avrebbe potuto impersonare il capo della Datsun messo di fronte alla linea della nuova nata, quella carina. Perché quella volta ci è andata bene, pensò, ma le auto giuste sono quelle così:
Non sono bella, piaccio.
Stessa marca, pure lo stesso colore ma molto brutta. Questo ha pensato il temuto signore giapponese; e ha annuito. “Così la vogliamo, cari disegnatori, che vi credete?”
Vabbè, in tanti fanno macchine belle e brutte, soprattutto in epoche diverse ma rendiamo l’esempio più estremo, quasi inconfutabile:
Non vi seduce, vi convince.
Questa è la Bmw Serie 7 di un paio di edizioni fa. Quella squadrata e mal arrotondata, con volumi appesantiti e dettagli che sembrano appiccicati. Quella ideata dal famigerato Chris Bangle,
Fidati di me, so quello che sto facendo.
all’epoca capo del design della marca bavarese da sempre apprezzata per le belle linee dei suoi modelli; che però, improvvisamente, si mise a peggiorare, anche per superabili motivi tecnici, l’aspetto di tutte le sue auto rispetto alle edizioni precedenti. Per il buon Bangle ci fu anche una petizione di fans Bmw che volevano farlo cacciare. Ma mica lo faceva per cattiveria e all’insaputa della dirigenza, povera vittima sacrificale. Applicava un metodo. Evolveva la percezione del marchio. Prima solo automobili belle e d’impronta sportiva, adesso si virava verso la seriosità; che non piace a tutti, non subito, ma che trasmette impercettibilmente un senso di ferma austerità e che apre le porte a nuove fette di mercato. Si consolida e ci si espande. Quella Serie 7 risulterà la più venduta fino ad allora, con buona pace dei fans del marchio. Lo scopo di un costruttore di automobili è venderne sempre di più, di qualsiasi tipo e guadagnandoci il più possibile e per far ciò era necessario allargare la platea dei possibili acquirenti. C’è gente che vuole spendere tanti soldi per un mezzo di trasporto classico e funzionale? Noi glielo daremo!
L’esempio definitivo?
Ce n’è di più belle, non di più vendute.
Eccola qui. La sempiterna Toyota Corolla, l’auto più venduta del mondo del marchio che vende di più al mondo. Solida e bruttina, una certezza. Ho scelto un’immagine di una versione non recentissima ma commercializzata anche in Italia. Con poco successo, ovviamente. In Italia, croce e delizia dei costruttori, l’auto è un po’ troppo un abito per piegarsi al concetto qui illustrato.
Oggi raccontiamo una storia. Non una storia qualsiasi ma una che ha fatto la Storia, nel mondo dell’auto. In pochi la conoscono, io provo a raccontarvela. Una storia che intriga; e che poteva finire in modo diverso.
I protagonisti non piacciono subito, ma sicuramente non sono noiosi.
Ha gli occhiali e ci vede lungo.
C’è il solito Sergio e c’è un Mario, uno di quelli famosi.
Ha gli occhiali e ci vede ancora più lungo.
Oggi, nell’anno di grazia 2017, il capo dell’ormai FCA stende tappeti rossi, sia pur con qualche buco, davanti al muso dell’Alfa Romeo ma… Riavvolgiamo il tappeto fino a qualche anno fa, diciamo fino al 2012; quell’anno in cui il gruppo si chiamava solo Fiat e a mesi, o settimane, alterne Capitan Sergio Marchionne annunciava nelle sue interviste della struggente ma necessaria chiusura di un altro grande stabilimento italiano del gruppo, dopo l’ormai segnato Termini Imerese, per superare l’eccesso di capacità produttiva. Troppa gente e metri quadri che avanzano, disse Sergio. Vero. Colpa della crisi del mercato ma anche dello spostamento di parte della produzione in siti esteri più convenienti. Adesso va così ma è un discorso molto distante rispetto alle ambiziose dichiarazioni d’investimento in Italia di un paio d’anni prima. E tanti, non solo i sindacati, lo notarono.
Prezzo basso, costo produttivo alto.
In aggiunta a tali annunci, infausti per l’occupazione e l’industria, l’amministratore delegato sussurrava anche frasi altrettanto minacciose, almeno per chi ha a cuore l’italianità dei marchi automobilistici. “Per 20 miliardi mi siedo al tavolo a parlarne”. 20 miliardi sono di euro, il tavolo sarebbe quello di altri proprietari e l’argomento era l’Alfa Romeo. Proprio lei.
Com’era lo slogan? “Arna, e sei subito alfista!”
Perfezione estetica su ruote…
La 33 Stradale e l’Arna: una della più belle auto di tutti i tempi e un clamoroso errore dell’Alfa.
Il marchio immarcescibile, il motore dell’armonica, il fascino a tonnellata, la ruggine dei ’70, l’eternamente in fase di rilancio. Che cos’è davvero l’Alfa Romeo? Robe passate quelle nelle immagini ma che ben rappresentano le incertezze che durano da decenni. Perché cos’è oggi l’Alfa Romeo? ai tempi del racconto e più o meno anche adesso? Il marchio è sempre intatto, lo dicono i sondaggi nel mondo intero e lo urlano i sostenitori. Ma i numeri – antipatici loro – descrivono una gamma modelli all’epoca e dei risultati di vendita ai minimi storici. Per i pochi investimenti, certo; ma il nostro Sergio sa che a volte in questo settore, è più facile perdere soldi che guadagnarne, investendo. E le auto si costruiscono per guadagnare, non per dar forma al metallo.
Torniamo alle vicende narrate. Di cosa parliamo quindi? Di uno stabilimento da chiudere o dell’Alfa da vendere? Parliamo di entrambi. Parliamo della strategia di un bravo giocatore di poker quale è ritenuto Sergio Marchionne.
I gioielli della corona e la fabbrica che non serve.
Ricapitoliamo. Marchionne ha in mano un ramo da tagliare (una fabbrica) e un marchio (Alfa Romeo) possibile fonte di preziosi denari. L’opportunità c’è, sotto forma del gruppo Volkswagen che, nel pieno splendore della sua ascesa al vertice delle vendite mondiali, dichiara quasi apertamente il suo interesse per il marchio nostrano.
Sergio se la gioca!
E’ quasi fatta? l’Alfa diventa tedesca e un altro stabilimento chiude i battenti? Non direi. Secondo me il boss gioca solo di di sponda; colpisce la palla in una direzione per farla arrivare in un’altra. Sa che i 20 miliardi non li otterrebbe ma continua a parlare della vendita per ricavarne, anche, un obiettivo economico attraverso la politica; sotto forma per esempio di nuovi incentivi al mercato e, sicuramente, del consenso alla chiusura dello stabilimento che avanza… Un lancio in alto mare per prendere più pesci grossi con una sola lenza. Con un’esca che in realtà non c’è.
Adesso entra in scena il Mario (Monti), ovvero il capo del governo italiano all’epoca dei fatti. Il capo dell’Italia, non della Fiat.
All’incontro, si dice, erano presenti oltre ai due protagonisti, anche i comprimari, cioè John Elkann ed Elsa Fornero.
Cosa può volere l’amministratore delegato (perché qui il politico si fa dirigente) dell’Italia da quello della Fiat? Proprio uno che ha stimato pubblicamente Marchionne e da questi è stato elogiato? Due chiacchiere diplomatiche? Siam compagni di quartierino? Ci si dà di gomito fra vecchie volpi? Non proprio. Perché, piacciano o no, qui le volpi sono di gran razza.
Ricordiamo per un attimo chi è Mario Monti. Per il grosso dell’opinione pubblica italiana è poco più di un funzionario parastatale, d’alto bordo ma di bassa utilità; un generatore di tasse e di malumore. Pure triste e ingessato. Altrove non è esattamente così. E’ probabilmente l’italiano più conosciuto e rispettato all’estero fra chi conta tanto (in denari) e chi decide di più (in politica), fin da quand’era commissario europeo alla concorrenza.
Se Monti è il sensale l’affare si conclude e tutti sono contenti, se l’affare lo vogliono.
Dicono che Sergio sia un grande negoziatore ma lì, seduti al tavolo, un bicchiere d’acqua davanti, secondo me non se l’aspettava. Ha di fronte un vero antagonista. Il dossier, i numeri e infine l’ipotesi.
Mario la mette giù in prospettiva. Trasforma la minaccia di Marchionne in un’opportunità. Invita l’avversario a cambiare il suo punto di vista.
“Mi dicono che lei vuole chiudere uno stabilimento. Mi dicono anche che la Volkswagen, oltre al marchio Alfa Romeo, rileverebbe anche uno stabilimento italiano, rilanciandolo. Non crede anche lei, dottor Marchionne, che un investimento in Italia di un grande gruppo tedesco porterebbe benefici e credibilità al sistema manifatturiero italiano? Che ha tante aziende e specializzazioni oltre a costi fra i più bassi dell’Europa occidentale?”.
Costruire in Italia
Sergio può bluffare o rilanciare ma sa che il suo interlocutore vede lungo come lui. “Ma come? Io minacciavo di vendere e lui mi chiede di farlo?”
Il dialogo è inventato, l’esito no.
Dall’indomani, Sergio Marchionne smise di parlare della cessione dell’Alfa Romeo e della chiusura di uno stabilimento. Per sempre.
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