Fa un po’ sorridere leggere oggi i numeri di vendita delle potenti berline e coupè dei marchi più prestigiosi. Nell’ordine delle migliaia (o decine di migliaia) di esemplari per ogni modello. Una volta era diverso.
Se la sfortuna ci si mette, sotto forma della crisi petrolifera e del disprezzo della borghesia, non c’è economia di scala che tenga. La benzina era aumentata di colpo, la crisi economica non aiutava e in quegli anni c’era fastidio sociale verso le automobili dei ricchi pasciuti. Qualche imprenditore vendette l’amata Ferrari o Maserati, che pur poteva sempre permettersi, per girare con modelli più comuni. A farne le spese furono soprattutto le grosse coupè e granturismo, con i loro assetati 8 cilindri, di cui queste Maserati e DeTomaso erano perfetti esempi.
Le domeniche a piedi
Più aggressiva, la DeTomaso
Un po’ più raffinata la Maserati
Quando Alejandro DeTomaso mise le mani sulla Maserati non ci pensò due volte e diede vita alla Kyalami (debutto nel 1976), modello tridentato della sua già pronta Longchamp (del ’73). Molto simili esteticamente, adottavano lo stesso telaio e meccanica, con l’eccezione del motore V8: un 4,2 (circa 260 cavalli) o 4,9 litri (285) fabbricato ovviamente in casa propria per la Kyalami e un Ford (5,8 litri da circa 300 cavalli) per la Longchamp, non avendo DeTomaso una sua produzione di motori.
L’automatico, disponibile sulla Longchamp, convinceva molti
Vendettero appena 200 esemplari circa la Maserati in 7 anni e 400 o forse meno la DeTomaso in 15 anni. Identiche anche nelle vendite. Così pare.
No, non sono mai esistite. Ma nei ricordi dei bambini di tanti anni fa hanno corso molto e hanno anche volato…
La Mach Patrol, supermacchina trasformabile in aereo della serie animata del 1978 “Daitarn 3” e, nelle foto più in basso, la Hayabusa di Ken Falco, serie automobilistica del 1976:
Queste magnifiche realizzazioni sono opera dell’illustratore Gianni Soldati:
Era strana, un po’ svogliata. Tanti non la ricordano. Riuscita ma non convinta fino in fondo.
Poteva svettare, con più cavalli e cattiveria, ma non lo fece. E forse fu un calcolo. Uno dei tanti esperimenti, tecnici e di mercato, del gruppo Volkswagen in quel periodo ormai lontano.
La Golf era un mito alla fine degli anni Ottanta qui in Italia, fra i giovani e non solo. Tutte le versioni piacevano ma non tutte erano un mito; solo la GTI, meglio ancora la GTI 16 valvole. Mito lo si diceva spesso, in quegli anni. Poi spuntarono queste, le G60.
La prima e la più caratterizzata fu la Rallye. Elaborazione estetica bella carica ma non davvero entusiasmante. Sembrava riprendere le soluzioni inventate dai tuner in voga all’epoca, bombata e con fari rettangolari che cambiavano ma non miglioravano. Trazione integrale Syncro e il motore, il riuscito 4 cilindri 1.8 della GTI, acquisiva un compressore volumetrico esclusivo del gruppo (il G Lader) invece del turbo che avevano in tanti. Una sovralimentazione particolare, che puntava sulla prontezza di risposta e sull’uniformità dell’erogazione, che permetteva però 160 cavalli, un po’ pochi per competere con le rivali più arrabbiate.
Poi uscì la GTI G60,
senza le 4 ruote motrici e l’estetica della Rallye. Costava non poco e non aveva prestazioni decisive, in grado di farla preferire alla sorella minore 16v. La carriera della G60 si chiuse con un’ultima versione da 210 cavalli, costruita in pochi esemplari e non importata in Italia.
Un tempo era facile. Più facile di oggi farsele piacere. Le auto da corsa. Sembravano auto stradali, e a volte lo erano, venute meglio. Venute proprio come le avresti volute. Così belle che non potevi crederci al fatto che non fossero tutte così, le automobili. Una era questa.
Arrivò nel ’66 la Porsche 906 o Carrera 6, se preferite.
Era una 904 cambiata, con quelle sue sospensioni, ma un bel po’. Ed era quella venuta perfetta. Sfruttava la filosofia inglese (meno peso), ma la traduceva in tedesco stretto (tecnologia a profusione). Non si limano solo i pezzi, se ne cambia la composizione. E così fu lega di magnesio per il basamento e titanio per le bielle, cilindri in alluminio e pistoni forgiati. Telaio in tubi e carrozzeria in fiberglass. Con altra tecnologia presa all’estero, ché siamo pragmatici.
2 litri per 210-220 cavalli. Il 6 cilindri boxer, che non era ancora un marchio di fabbrica ma lo sarebbe diventato. Tratto da quello della 911 ma centrale, non a sbalzo e con 54 chili di peso in meno…
Dove andò vinse molto, quasi tutto. Pensata e spinta quasi a forza da Ferdinand Piech, uno così:
Com’erano le Formula 1 quasi trent’anni fa? Com’era una Ferrari F1 di quegli anni? Che prestazioni sviluppavano? Molto distanti da quelle attuali?
La Ferrari 641/2.
Una delle F1 più belle di sempre, montava un V12 aspirato di 3,5 litri.
Era quella con cui corsero Alain Prost e Nigel Mansell ed era, alla fine del campionato, la migliore in pista. Prost sfiorò il titolo mondiale, perso al gran premio del Giappone nello scontro con Senna alla prima curva.
Quanto andava forte quest’auto?
Durante le prove libere sul circuito di Monza nel 1990 venne rilevato, per esempio, uno sbalorditivo 5,53 secondi da 0 a 210 km/h (in cui scontava la perdita d’aderenza iniziale) e un ancor più incredibile 2,73 secondi nel transitorio 110-210 km/h, nonostante la deportanza. Nessuna auto stradale attuale, nemmeno la Bugatti Chiron da 1500 cavalli, riesce in tale impresa.
In velocità massima però, per via dell’enorme carico aerodinamico e della potenza inferiore alle Formula 1 attuali, non superava i 315 all’ora. Frenava da 100 a 0 in 19,3 metri.
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